Legittimo l’accertamento induttivo basato su dati rinvenuti nel computer di un dipendente.

Deve ritenersi legittimo l’accertamento induttivo (vale a dire l’accertamento eseguito ai sensi dell’art. 39, co. 2, del d.p.r. n. 600 del 1973, ossia, effettuato dall’amministrazione finanziaria prescindendo dalle scritture contabili e dal relativo contenuto) nei confronti di un’impresa basato su dati rinvenuti nel computer di un dipendente. Tale rinvenimento, infatti, consente al fisco di prescindere dai dati di bilancio e dalle scritture contabili, legittimandolo a rideterminare la posizione fiscale del soggetto verificato anche mediante le cosiddette presunzioni “supersemplici”, ossia, prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. In questo senso si è espressa la Corte di Cassazione, sesta sezione, con l’ordinanza 20793/20 del 30 settembre 2020, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle entrate nei confronti di una società. La contribuente aveva impugnato un accertamento induttivo basato per l’appunto sul contenuto di documentazione extracontabile rinvenuta sul computer di un dipendente, attraverso la quale l’erario aveva quantificato e contestato maggiori ricavi, recuperandoli a tassazione, sia ai fini delle imposte dirette, sia ai fini IVA. La commissione tributaria di primo grado aveva respinto il ricorso con sentenza tuttavia riformata in appello, dove era stato affermato che l’accertamento impugnato si basava su presunzioni scaturite da fatti non accertati. La documentazione ritenuta riferibile ad un lavoratore non era stata infatti considerata rilevante e l’Ufficio aveva omesso di verificare i dati extracontabili con quelli contabili. L’Amministrazione finanziaria impugnava la sentenza d’appello in Cassazione, sostenendo la legittimità del proprio accertamento, il quale, essendo un induttivo cosiddetto “puro”, ben poteva fondarsi su presunzioni “supersemplici”. La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha ricordato che nel metodo induttivo le omissioni o le false e inesatte indicazioni risultano tali da inficiare l’attendibilità e dunque l’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento, anche degli altri dati contabili, apparentemente regolari. Talché, l’amministrazione finanziaria può prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti ed è legittimata a determinare l’imponibile in base a elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva. In pratica, nel momento in cui il fisco risulta legittimato a ricorrere alle cosiddette presunzioni “supersemplici” (vedasi il rinvenimento di una contabilità parallela), l’accertamento emesso sulla scorta di tali dati dovrà ritenersi valido, risultando a carico del contribuente l’onere di opporre elementi contrari volti a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’ufficio. Ne consegue, ha concluso la Cassazione, che il ricorso deve essere accolto in forza del principio di diritto secondo cui “nel caso in cui l’accertamento sia condotto con metodo induttivo a termini dell’art 39, comma 2, d.P.R. n. 600/1973, l’amministrazione ha facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e può fondare l’accertamento su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, con inversione dell’onere della prova in capo a parte contribuente, di provare che il reddito accertato non è stato conseguito”. La sentenza in rassegna è certamente meritevole di considerazione, soprattutto perché conferma l’assunto secondo il quale la contabilità parallela rinvenuta in azienda o altrove può rilevare ancor più di quella ufficiale, gravando il contribuente di un conseguente onere probatorio sicuramente non agevole.

Avv. Fabio Falcone – Presidente della Camera degli Avvocati Tributaristi della Romagna

Articolo estratto dall’inserto di Economia del Corriere Romagna del 7 ottobre 2020

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