Il commercialista risponde del reato di dichiarazione infedele laddove sia consapevole della condotta fraudolenta posta in essere dal proprio cliente *.

Laddove il consulente fiscale sia consapevole delle condotte fraudolenti dei propri clienti, e, segnatamente, dell’uso di fatture per operazioni inesistenti da parte degli stessi, rischia di essere condannato ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, ossia, per il reato di dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Tale principio è stato stabilito dalla Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale, mediante la sentenza n. 28158 del 2019. In particolare, i giudici di vertice hanno chiarito che, relativamente al profilo della colpevolezza, risulta incontestato e condivisibile l’indirizzo secondo il quale il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui al già citato articolo 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, deve ritenersi compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’Iva. In pratica, stando a quanto indicato dalla Terza Sezione Penale, laddove un consulente fiscale predisponga la dichiarazione dei redditi del proprio cliente consapevole che la relativa posizione fiscale viene liquidata e determinata anche mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti, può essere incriminato per il solo fatto di aver accettato il rischio di consentire (ovvero, agevolare), con la propria azione, un’eventuale evasione d’imposta. Ciò è quanto risulta avvenuto nel caso di specie, dove, per l’appunto, il professionista ha riportato una condanna ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000 per il semplice fatto di aver assunto ed accettato il rischio che le irregolarità presenti nell’impianto contabile del proprio cliente potessero configurare un illecito di tipo fiscale, ossia, potessero consentire ed agevolare l’evasione di imposte. A tal proposito, i giudici di vertice hanno ritenuto debitamente provata agli atti la consapevolezza del consulente in ordine alla falsità dei documenti fiscali utilizzati, alla luce di una serie di elementi istruttori, tra cui il fatto che il consulente seguisse il proprio cliente da diversi anni. Stando alla sentenza in commento risulta sostenibile che il consulente fiscale dovrà rispondere del reato di frode fiscale solo e nel momento in cui venga attendibilmente dimostrata la sua piena conoscenza della falsità dei documenti usati dal proprio cliente. Non può essere altrimenti, salvo voler ulteriormente appesantire ed aggravare una professione che di per sé risulta già particolarmente difficile, a causa dei numerosi adempimenti formali richiesti dal legislatore fiscale.

Avv. Fabio Falcone – Presidente della Camera degli Avvocati Tributaristi della Romagna

*commento tratto dal Corriere Romagna, inserto di Economia del 3 luglio 2019